Parole sfuse che costano meno

Le donne vengono da Venere, gli uomini da Garbatella

E ci sono ricascato

Il figlio del mio amico Alessandro è un adolescente vispo e curioso.  Mi percepisce come un adulto accessibile, forse perché non ho mai superato mentalmente i 16 anni e facciamo spesso interminabili conversazioni come solo chi deve ancora esplorare il mondo può fare e non ha paura di “sprecare il tempo”.

L’aspetto più divertente dei momenti che passiamo insieme sono le sue continue domande relative a scenari assurdi tipo: “ se potessi scegliere un super potere, ma non uno fico come volare ma uno muffo tipo imburrare i panini con la telecinesi, quale sceglieresti?”

Un dilemma che si gli si attaglierebbe sicuramente potrebbe essere: “Se avessi 600 milioni da spendere ma con la condizione che il risultato fosse sicuramente uno spreco insensato e fastidioso come li impiegheresti?”

Ecco, fino alla befana, grazie alla mia fanciullesca immaginazione avrei risposto “affitterei 100mila elicotteri per far defecare in volo 6 milioni di persone e creare la piramide di merda più alta della storia” oppure “ammaestrerei un plotone di babbuini per ballare YMCA prima della finale di coppa Italia”. Oggi con mente certa posso dire “Girerei Avatar 2”.

James Cameron già con Avatar uno aveva ridiscusso tutte le certezze del cinema proponendo una raffinata e avanzata cacata piena di gatti blu che a colpi di cerbottane sconfiggono migliaia di marines armati fino ai denti (vedi la prima recensione), ora con il secondo capitolo si spinge più in là abolendo una istituzione sopravvalutata del cinema, la trama. Con una grande provocazione marinettiana porta sullo schermo una sofisticata versione del salvaschermo con l’acquario di windows 95 della durata di 3 ore e 12.. no dico 192 minuti di pescetti e cavallucci marini.

Spoiler alert, seguono alcune rivelazioni del film che però sorprende come il fissare un campo di pannelli solari nella periferia di Catanzaro per cui si può serenamente continuare nella lettura.

Dopo aver sconfitto grazie all’allergia alla saliva felina le truppe d’assalto, i gatti blu vivono felici copulando e figliando con grande alacrità. Passano 15 anni ed i terrestri tornano con 10 volte le truppe della prima volta, finalmente una tecnologia che ci si aspetta da un viaggio interplanetario e come è logico pensare, si insediano senza colpo ferire e randellano a destra e manca.

Inspiegabilmente i gatti resistono, forse rigurgitando palle di pelo, forse rovinando coi graffi i divani nuovi che i terrestri s’erano portati da casa e creando dissidi con i congiunti dei marines, fatto sta che tengono botta fino a che la generalessa cattiva capisce che forse attaccare potrebbe essere una mossa ardita ma necessaria in una guerra con un rapporto di forze millemilioni a tre.

Per non far scannare la propria tribù, l’ideona di Cameron e del capo micio è di sposarsi di 300 km a destra dove al posto dei gatti blu ci stanno quelli grigi (mecojoni che sottotrama etnica) e far sì che se proprio sterminio debba essere, che ammazzino questi altri.

La nuova tribù ringrazia sentitamente della preferenza accordata, ventila la possibilità di essere sterminati per cazzi altrui ma il capo gatto dice “ma che te pare?” e tutti si sentono rinfrancati.

Il capo dei cattivi, forte di anni spesi alla scuola ufficiali, dopo aver trovato i fuggitivi ascoltando il baracchino FM con cui i gatti comunicano (sembra che stia esagerando ma è tutto vero) invece di presentarsi con 50 bombardieri e sterminare tutto e tutti, cosa che agli americani riesce benissimo da un centinaio d’anni, si imbarca su di una baleniera e bussa ad ogni isola come un piazzista di folletto o testimone di Geova che funesta le nostre domenica da che Dio ci ha dato memoria.

Passano altre due ore di sotto trame insignificanti che scopiazzano Dawson Creek, star wars e la sirenetta (adolescenti problematici, duri dal cuore tenero, padri e figli che si odiano ma alla fine vince l’amore), sue stanche sberle in non muore praticamente nessuno, the End.

Cameron si era reso conto della cacata che aveva scritto, diretto ed aveva paventato qualche problemuccio a rientrare dei soldi ma oramai la gente si sciroppa qualsiasi cosa ed inspiegabilmente le tre ore peggio spese della mia vita (incluse quelle spese in cure odontoiatriche od al catechismo) si sono tramutate nel terzo maggior incasso della storia del cinema.

James ha già dichiarato che mamma sua gli aveva insegnato che sui soldi gratis non ci si sputa ed ha già in canna Avatar 3,4 e 5 e che , visto che l’unica cosa che gli è richiesta per sbancare il botteghino è cambiare il colore dei gatti, andrà avanti finché Microsoft Paint gli darà nuovi spunti di trama.

febbraio 8, 2023 Posted by | Editoriali | Lascia un commento

I soldi e la svizzera

Ogni volta che mi trovo ad affrontare un qualsiasi argomento con chi mi conosce, i primi 20 minuti sono dedicati a smorzare il pregiudizio che qualsiasi cosa lui stia ascoltando è frutto dalla mia voglia di cacare il cazzo.

Per carità, a pensar male si fa peccato ma ci si azzecca. Anni di poco lusinghiere valutazioni di specchiati insegnanti non possono tutti essere frutto di una cospirazione sauromata ed il mio parlare per iperboli mi ha portato di norma solo guai ma in questo caso chiedo di porre “il solito stronzo” come corollario e non come prologo a: la svizzera non è un paese ricco è un paese coi soldi che è tutta un’altra storia.

Agli inizi del novecento, cinque secoli di pace non erano riusciti a traghettare nel benessere il paese rosso crociato al contrario di realtà di simili dimensioni ma molto più piratesche come il Belgio e l’Olanda per una ragione molto precisa: la Svizzera non esisteva come paese unito, c’erano migliaia di piccoli centri isolati, poco popolati da gente che amava rimanere isolata, con pochissima voglia di mischiarsi con altri e che parlava il suo dialetto di una lingua che smetteva di avere senso appena uscito dal recinto del gregge. Non è un caso se Hedi consideri il suo trasferimento a Francoforte (mica Kampala) come la schiavitù in Babilonia.

Ora, senza scomodare Ricardo o Malthus, è abbastanza evidente che se l’economia di un posto si basa su “io ti do una moneta a te, tu la dai a mia sorella (che in alcuni casi è pure mia moglie) e mia moglie la da a me” poco si possa ottenere otre a figli emofiliaci.

Poi, non molto all’improvviso, il secolo breve ha cominciato a dimostrare c’era molto da rimpiangere l’era della controriforma in cui al più ti davano fuoco al villaggio ed ai figli in nome dei sacramenti ed un luogo “isolato, riservato, protetto, povero” diventava il rifugio ideale per qualcosa che nel paese non c’era ma che ci avrebbe riposato benissimo: i soldi degli altri.

Sull’ortodossia delle modalità di versamento si potrebbe aprire una sterile polemica e poco importa se certe volte le pepite d’oro avessero la singolare forma dei premolari, fatto è che nel 1946 la Svizzera si ritrovò piena di danaro depositato da sbadati clienti che si dimenticarono di andarlo a ritirare.

Teoricamente alcuni correntisti avrebbero dovuto avere 128 anni, tal altri provenivano da villaggi che erano stati decorativamente rimpiazzati da crateri fumanti ma nell’osservanza del segreto bancario gli istituti protessero la privacy dei longevi e vaporizzati clienti.

Per continuare ad attrarre certi tipo di clienti e conservare il danaro era sicuramente necessario darsi un contegno ed è per questo che un giorno (me la immagino così) fu deciso che tutto sarebbe costato il doppio, la gente avrebbe guadagnato il doppio ed alla fine del mese tutto sarebbe rimasto uguale a parte la bestemmia che ti parte quando alla stazione di Zurigo ti chiedono 6 euro al banco per un caffè di merda.

L’impatto che ha la Svizzera su un italiano è devastante. Politiche ultra protezionistiche ti portano a pagare un mazzo di asparagi quanto il diadema da incoronazione di Caterina la grande e la sensazione di essere gabbato non svanisce. Tutto ciò che richiede l’intervento umano costa tantissimo perché la manodopera costa tantissimo per permettere agli operai di comprare le cose che costano tantissimo.

È inutile che proviate ad analizzare la questione, sono due anni che ci sbatto le corna sopra senza alcun risultato.

Sicuramente vero che il livello dei servizi sia molto alto, la burocrazia sia efficiente ma non è che la Svizzera confini con il Lesotho e lo Swaziland, oltre dogana funziona tutto uguale ma senza dover sperare che il cartellino dei broccoli sia in marchi della repubblica di Weimar.

La consapevolezza di vivere in un sistema truccato genera un certo distacco nei confronti del danaro. In tanti paesi costosi, come il Qatar, hai eccellenti occasioni di sputtanare il tuo danaro ordinando bistecche di narvalo placcate oro ma volendo puoi andare per bettole spendendo mezzo euro, qui no! Sai benissimo che il tuo stipendio non ti appartiene e che la macchina è tarata come un casinò per farti restare al tavolo e non permetterti di alzarti fino ad aver cacciato l’ultima fiche. Non sarai mai ricco, sei un deposito provvisorio di danaro ma non t’azzardare a considerare di tenerlo.

Il concetto di sconto poi assume connotati Ioneschiani. E’ assolutamente impensabile che ti vengano abbonati anche due fetecchiose monete di rame (i 5 centesimi di franco che la gente guarda come acari sul paltò) in un conto del ristorante mentre la prima offerta di un qualsiasi fornitore ha la concretezza di un lemonissimo nella lava e ti logorerà con una battaglia all’ultimo sconto degna della qasba di Algeri.

Per questo motivo ogni ribasso, anche insignificante, è pubblicizzato a grandi lettere nei supermercati per rimarcare che ti stanno levando 11 centesimi sullo yogurt al rabarbaro e pistacchio senza soffermarsi sul disagio che ti abbia spinto a scegliere quel gusto.

Unica nota positiva è che mentre qui mi sento un medio borghese che non sia mai non dovesse perdere il lavoro sarebbe donato alla ricerca scientifica, ogni volta che ritorno a casa trovo assolutamente ragionevole qualsiasi conto da turista giapponese mi venga sottoposto e rispondo sorridendo “me ne porti un altro per favore”.

PS

Poi alla fine, con tutte le critiche a me piace vivere qui è che davvero non so stare senza rompere il cazzo

 

 

Maggio 5, 2020 Posted by | Editoriali | Lascia un commento

La svizzera al tempo del virus

Ci sono delle premesse necessarie per comprendere come il paese confederato sta affrontando questa emergenza. In primis, come detto pocanzi (inutile facciate “ahaaa t’ho beccato”, ho controllato ed entrambe le forme sono ammesse), la svizzera come paese unito da tradizione, storia e lingua proprio non esiste per cui il massimo che può fare un osservatore è catalogare il caleidoscopio cantonale di misure e norme che è un modo carino e delicato per dire “a cazzo di cane”

In secondo luogo lo stereotipo per eccellenza “e mica è un ospedale svizzero” non potrebbe essere più insensato.

Sfruculiandomi le gonadi con l’entusiasmo di un nonno che regge il cartellone della tombola a natale e che cerca disperatamente il 23 in fondo al bussolotto non ho mai avuto rapporti con la sanità svizzera se non meramente economici. Sono lo sugar daddy del SSN, pago senza ottenere indietro il becco nemmeno uno straccio di preliminare.

In svizzera, prima ancora di poter presentare la richiesta del permesso di soggiorno devi sottoscrivere una polizza assicurativa per i servizi medici. Non ho mai investigato cosa accada ad un clandestino od a un moroso in caso si presentino in ospedale senza copertura ma osservando i manichini dei grandi magazzini credo la parola che risponda meglio al quesito sia “formaldeide”.

La polizza base ha un costo modesto per gli standard svizzeri (il tema monetario sarà affrontato in un capitolo a parte), sui 350 franchi al mese e per legge ha una copertura identica, qualsiasi sia la compagnia che la stipula, un beato cazzo.

La polizza base copre giusto uno che se hai la febbre ti dica “stai a casa” o ti scriva la ricetta per la preparazione H e nel mio caso lo fa pure per telefono. Questi servizi che farebbero rimpiangere un ospedale da campo delle guerre napoleoniche non sono nemmeno gratis perché la formula da profugo ha una franchigia di 2500 franchi il che mi spinge a prendermi particolare cura della mia salute.

La stragrande maggioranza di chi vive in svizzera è nelle mie condizioni per cui chi può si tiene molto lontano dagli ospedali e dai medici ed in caso di decesso viene rimpiazzato da un congiunto somigliante come i cinesi di Prato.

Lo stato ed i cantoni incoraggiano in ogni modo questo approccio risparmioso dei contribuenti con campagne di terrore puro a mezzo stampa con bambini nei fossati, tatuaggi a forma di battistrada di pneumatici e così via.

La più bella di tutte rimane “acque sicure” che sarebbe stata ritenuta eccessiva persino ne “lo squalo” in cui una serie di belle immagini di gioia erano corredate da scritte del tipo “ore 13 un bel pranzetto, ore 1320 arriva l’ambulanza”, per spiegare i pericoli delle congestioni.

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È quindi inspiegabile l’approccio “se lallero” che le autorità locali hanno dedicato al Covid. Per un paio di settimane i giornali hanno completamente ignorato la questione, i cittadini, a parte un isolato attacco all’arma bianca ai supermercati che ha polverizzato gli scaffali dei rigatoni, si sono votati alla piena autogestione e fino a 8 giorni fa tutto rimaneva aperto senza limitazioni. Ancora oggi, non essendoci blocchi sulla circolazione nei supermercati ci sono le linee per terra per distanziare e ti danno l’amuchina all’ingresso ma credo che sia più un vezzo per sentirsi europei che per reale necessità visto che come pure prima del fattaccio, in giro non c’è proprio la pipinara al cocomeraro di ferragosto.

Il cantone ha prima bloccato i cantieri salvo ieri riaprili con una serie di prescrizioni che sembrano il testo de “il ballo di simone”, tipo puoi lavorare se stai a 2 metri dal collega, ti lavi le mani ogni 20 minuti, starnutisci nei sacchi per l’amianto, baci l’ano di un montone sotto il noce di benevento. Semplici misure di profilassi alla Howard Huges nel momento meno lucido. La gente, forte delle bastonature preventive che ha sempre ricevuto, nel dubbio sta a casa.

Per andare a lavoro mi hanno concesso un pezzo di carta con scritto “lavoratore necessario” cha fa tanto Schiendler’s list e che non mi lascia tranquillo per nulla visti i pregressi di questo amabile popolo con gli entusiasti ragazzoli dei lunghi coltelli.

Continua (se mi tengo lontano dal vagone piombato)

marzo 28, 2020 Posted by | Editoriali | Lascia un commento

Il 27esimo cantone

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È tanto tempo che non mi siedo a scrivere, quasi cinque anni.

Una volta avevo un eloquio brillante ed una prosa pungente camuffati da una grafia degna di un tacchino artritico cui abbiano legato un pennarello alla zampa, una specie di Dorian Gray letterario,

L’arrivo di word ha cancellato la vergogna della signorina Drago, mia maestra elementare, di non essere riuscita ad insegnarmi a scrivere dritto nemmeno legato alla scrivania come l’Alfieri concedendomi di allenare le dita e la mente mettendo a fuoco tutti gli insegnamenti di una famiglia in cui la biblioteca di Alessandria è considerata un simpatico scaffale dello scibile umano dove appoggiare i panni Swiffer.

Ora, dopo meno di un lustro davvero lontano da casa, mi sorprendo a parlare come Fra Salvatore, mischiando lingue, espressioni, costruzioni verbali parlando e scrivendo 3 lingue, abbastanza male.

Forse è il caso di ricominciare spinto dall’amor proprio ed anche perché, ci si possa credere o no, la mia penna mi ha fatto conoscere più donne dei miei occhioni azzurri.

La prima regola dello scrivere bene è scrivere di qualcosa che si conosce e quindi resterò su me stesso. Solo una volta ho provato a cimentarmi in un testo non autobiografico, esplicitandolo, e nonostante tutto mi sono trovato gli assistenti sociali in casa e compagni delle elementari che mi invitavano ad abbracciare Gesù come mio salvatore ed astenermi dal suicidio. Meglio parlare del mio nuovo paese, la Svizzera.

Ora, venendo qui mi sono reso conto che di base nessuno sa molto della Svizzera. Per l’universo mondo è una specie di Molise ricco in cui ci sono le mucche, gli orologi ed i soldi sottratti al fisco.

Ecco, non siete molto lontani dalla realtà a parte il fatto che francamente è un paese molto bello con qualche piccolo problema da risolvere.

La Svizzera è una confederazione di 26 cantoni (io presto mi autodichiarerò come 27esimo) con dimensioni che vanno dall’area occasioni di Ikea (ma con molta meno gente) a Roma monteverde. Una specie di Italia dei comuni dell’anno mille in cui tutti cercano di frodare ed inchiappettare il proprio vicino, dove le leggi cambiano ogni 10 cubiti ed i beni non si pagano col baratto perché realizzare dei caveaux sufficientemente grandi per far sparire gli armenti degli ebrei durante la guerra non sarebbe stato agevole. Nonostante queste premesse la vita è piacevole una volta capito d’essere ospite e di dovermi comportare a modino pena la garrota in piazza (non conosco il codice penale ma non la escluderei)

La forma di governo è indefinita, basta far presente che in ogni governo deve essere rappresentata anche l’opposizione che è un po’ come sperare in una riuscita festa di nozze in cui la sposa pretenda di invitare tutti i suoi ex che dovrà riconoscere limonandoci bendata.

Di norma il governo è ultra conservatore, con sprazzi di laicismo spinto, stato sociale forte, eutanasia e droga di stato ma tutto questo non importa molto perché ogni legge che Berna propone i 26 cantoni devono attuare e li ognuno cerca di fare come gli pare, ritardando, imbrogliando mentendo e poi ricorrendo al referendum. Si perché in Svizzera si vota grosso modo ogni otto ore, cosa molto comoda se devi ricordarti di prendere una pasticca, su qualsiasi argomento: dal diritto di detenere in casa armi da guerra a quello di limare le corna delle vacche. Non sono iperboli sono stato testimone di entrambi e se siete curiosi vi dirò che ha vinto il si alle vacche smussate ed il no a svuotare un M16 sul vicino impiccione.

Questo grammelot politico permette ai nazisti dell’Illinois di governare il paese ma di non averne mai il controllo e di non poter attuare le politiche isolazioniste che renderebbero la svizzera un paese di 108 abitanti e gli impedirebbero di giocare a pallone persino contro Andorra visto che la metà della nazionale è formata da kosovari riparati qui durante la guerra e l’altra metà da robusti ragazzoni neri non proprio virgulti alpestri.

Il lato ultra conservatore degli svizzeri emerge nel curioso approccio alla difesa. Sebbene non abbiano una guerra in casa da 400 anni, sono da sempre grandi esportatori di armi e mercenari.

Da Giulio Cesare in poi ci sono sempre stati degli elvetici protagonisti in tutte le guerre d’Europa ma rigorosamente in trasferta e questa abilità gli ha fruttato robette come il Ticino, regalato dalla spagna per pagare il ferro elvetico. Amici Ticinesi, fatevene una ragione, siete di Varese e l’avete scampata per un’incollatura.

L’esercito Svizzero conta un numero enorme di riservisti, praticamente tutta la popolazione abile, e tutte queste persone hanno un’arma a casa. Viaggiando sui treni si incontrano carovane di ragazzi in uniforme che tornano a casa dal periodo di ferma e che hanno la faccia da guerra di Tinky Winky dopo un sorbetto alla fragola. Hanno una fanteria, molto comprensibile vista la difficoltà di spostamento, una aviazione che forse fatica un po’ data l’impossibilità fisica di far atterrare un origami tirato con l’elastico ed una MARINA!!!

Io mi immagino la mestizia dell’ammiraglio della flotta preso per i fondelli dai suoi omologhi che lo dileggiano tirandogli feluche di carta e paperelle di gomma alle riunioni della NATO di cui la Svizzera non fa parte ma che probabilmente invita il poveruomo per malanimo.

Continua..

marzo 24, 2020 Posted by | Editoriali | Lascia un commento

Cronache Qatariote, mese terzo: Automobili da sboroni

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Non credo possa esistere un paese migliore di questo per possedere un’auto. Niente bollo, assicurazione economica, strade larghissime, benzina gratis o quasi. Il paradiso per ogni automobilista.

Chiunque voglia far parte della società civile qui deve possedere un mezzo meccanico;  c’è solo l’imbarazzo della scelta che però deve essere fatta con cura per non essere malvisti dalla popolazione locale che ha come requisito minimo il fatto che la cilindrata debba essere maggiore od uguale al proprio reddito. Considerando che da queste parti un estratto conto viene fornito dalla banca direttamente rilegato in pelle e con indice credo di aver chiarito il concetto abbastanza chiaramente.

In fondo alla grande scala sociale dei veicoli c’è la Toyota Corolla bianca, 1800 di cilindrata, una macchina che in un mondo normale e sensato ti farebbe sentire quasi a posto con la coscienza d’automobilista ma che in Qatar viene vista appena sopra i carrelli del supermercato tant’è che spesso al posto delle chiavi ai proprietari viene consegnato un gettone che viene espulso dalla portiera quando incastri la tua macchina con un’altra al Carrefour. Questo tipo di vettura rappresenta almeno il 70% del parco circolante ed è posseduta da tutti gli immigrati di bassa fascia che fanno funzionare questo enorme luna park sabbioso. Generalmente mal vista dai posteggiatori, viene relegata negli angoli più remoti e caldi dei parcheggi sotterranei come Quasimodo per preservare i ricchi ed innocenti occhi dei piccoli emiri da questi ammassi di lamiera trasudanti povertà.

Lo scalino successivo, il mio, è quello delle cosiddette “vorrei ma non posso”. Jeep, mini suv e simili che viste da fuori sembrano ambire a maggior dignità ma che sotto il cofano celano motorizzazioni meschine, sotto ai tremila benzina senza turbo, poco meno del robot da cucina del Qatariota medio.
Le VPNP sono viste un po’ come le ragazze di facili costumi; fanno comodo a tutti ma nessuno le rispetta per cui veniamo regolarmente scavalcati in fila ai benzinai ed agli autolavaggi da astronavi in titanio con sedili di alligatore ed i bambini locali possono usare le nostre portiere come quaderni su cui scarabocchiare con chiodi d’oro massiccio (per favore, niente pippe sul fatto che l’oro sia duttile e non possa graffiare. E’ una metafora).

All’ultimo gradino delle auto prodotte per gli esseri umani ci sono quelle degli espatriati ricchi, in genere tedesche, che vengono usate principalmente dalle mogli per portare i figli a scuola. Teoricamente avrebbero anche i requisiti per incutere un certo rispetto ma sono guardate con schifo e commiserazione dai locali perché progettate secondo assurdi requisiti come le basse emissioni, prive di sospensioni pneumatiche e senza uno straccio di clacson bitonale per terrorizzare gli straccioni delle corolla.

Sherlock Holmes diceva che una volta esaurite le spiegazioni possibili, quelle rimaste anche se altamente improbabili, dovevano corrispondere alla verità. Ecco, non esiste altro aggettivo che “improbabile” per descrivere il rimanente parco veicoli appartenente esclusivamente alla popolazione indigena.
Tendenzialmente esistono 2 grandi sottogruppi: i monster truck e le astronavi che, chiariamoci bene, non sono alternative ma semplicemente sfoggiate in occasioni diverse dallo stesso proprietario che le impila in garage con la noncuranza con cui accumuliamo la lanuggine dell’ombellico.
I monster truck vengono utilizzati in genere durante le ore diurne per mansioni familiari, hanno i vetri oscurati, 4 o anche 6 ruote motrici, un’altezza che richiede per salire l’aiuto di un palafreniere domiciliato nel bagagliaio ed una cilindrata minima di 6000 benzina, di poco inferiore a quella del traghetto per il Giglio con cui generalmente condividono la stazza a secco.
Vengono utilizzati per percorsi impervi come i parcheggi dei centri commerciali o vialetti delle ville e sebbene di aspetto molto sportivo celano finiture in oro ed alabastro con rivestimenti in animali estinti. Sono perfette per incutere timore e deferenza nelle maestranze  irretite come daini nel bosco dagli enormi fari gialli sempre accesi. Appaiono nello specchietto come la balena di pinocchio, pronti ad ingoiarti in un sol colpo alla prima frenata imprevista. Visto che l’unica infrazione con conseguenze penali è il semaforo rosso, forti di un reddito di cittadinanza di  3000 euro mensili dedicato eslcusivamente al pagamento delle multe, i proprietari le lanciano senza ritegno a 180 km/h conferendo loro la quantità di massa della cometa di Armageddon ed una periocolosità anche maggiore essendo il Qatar privo di Bruce Willis.

Quando però il sole tramonta  il povero qatariota cerca il giusto descanso e tira fuori dall’orbita di parcheggio intorno a Saturno la sua astronave.
Contrariamente ai Jepponi, le astronavi sono ad appannaggio esclusivamente maschile e sono utilizzate per fare vasche nei compound, creare ingorghi inestricabili di fronte alle discoteche e gare di drift nelle rotonde.
Aston Martin,  Bentley, Ferrari e Maserati sono considerate auto banali alla portata dell’uomo della strada, almeno la versione base (103 anni del salario di un contadino della basilicata), per cui le strade invase da modelli sperimentali con sigle avveneristiche, pezzi di cofano segati per ospitare cilindrate aggiuntive e scarichi cromati come canne d’organo.
Non è infrequente rinunciare a far lavare la macchina perché l’autolavaggio è intasato di rolls royce (giuro) per cui se ci si vuole distinguere dalla massa non si ha altra scelta che andare su cromie assurde proprie della foresta amazzonica (verde raganella, viola melanzana satinato, strisce alla ringo people) o virare su prototipi sperimentali realizzati da scienziati nazisti in fuga dal ’45 e frenati con piccoli paracadute, ovviamente in seta cruda e visone.

Prossimo capitolo: intrattenimento

ottobre 20, 2015 Posted by | Editoriali | 6 commenti

Cronache Qatariote, mese secondo: Il potentissimo Sarlacc qatariota, i ristoranti d’albergo

Nota introduttiva: chi non coglie la citazione del titolo si vergogni di se uomo fra i 14 ed i 55 anni.

La giornata lavorativa comincia mediamente con la sveglia delle 5:50, uno o due rinvii a seconda dell’indulgenza che voglio concedermi o del numero di riunioni che impietosamente il telefono mi ricorda, 20 minuti passati in modalità catatonica a vagabondare per casa, rimbalzando contro i muri come l’aspirapolvere Rumba, doccia, colazione relegata agli ultimi 130 secondi in cui mi verso dei cereali direttamente nel gargarozzo assieme al latte come un cormorano e sono pronto per andare in cantiere.
Dopo 12 ore (media validata dal cartellino) un uomo medio rientrerebbe a casa, masticherebbe dei surgelati dalla busta spacciandoli per praline algida al gusto calamaro e scivolerebbe in uno stato di sonno distinguibile dalla morte solo per il russare a 150 decibel stile Garelli smarmittato.
Fortunatamente ho poco dell’uomo medio, magari l’integrale di pregi e difetti fa omino Bialetti però tutte le sere provo a non rinchiudermi nel sacello domestico a tenuta stagna. La voglia di socializzazione deve scontrarsi però con un ostacolo che molti sottovalutano in un paese musulmano.. dove cacchio vai senza alcool?

A vivere fra Slovacchia, Cechia e compagnia cantante uno si scorda come il motore primo di tutta la socialità europea sia legata all’ebrezza alcolica e questo fa del qatar un posto molto poco divertente. I pub si contano sulle dita della mano di un mastro d’ascia (due) e quindi se uno vuol chiudere una giornata con un bicchiere di ottima birra ha una sola alternativa. I ristoranti degli hotel internazionali, trappola mortale da cui non si può sfuggire che dopo un patimento di mille anni (si ritorna alla citazione nel titolo).

Andare a mangiare in un albergo per un italiano è abbastanza fuori dalla grazia di Dio. Di solito è sinonimo di cibo incomprensibile, prezzo alto, cuochi vestiti da pagliacci ed ambiente vistoso. Qui in Qatar è esattamente la stessa cosa ma con il valet parking gratuito.
Si comincia nel pomeriggio con una prenotazione che porta via mediamente 8 minuti fra chiamata al numero generale, centralino, rimanga in attesa, primo numero che non suona, centralino, secondo numero, salve sono Svetlana (pure se è un ristorante siriano copto) e finalmente si riesce a prenotare dando tutti gli estremi fino al casellario giudiziario ed i carichi pendenti. Alla fine della telefonata la cameriera lituana ripete per filo e per segno, forse grazie ad appunti stenografati, l’intera conversazione e chiede conferma con una procedura degna di un espianto d’organi o di un acquisto di bond greci.
Le prime schermaglie di quella che sarà una lunga serata di battaglia si hanno con gli addetti al parcheggio per convincerli a non usare la mia auto come cassonetto per gli oli esausti. Solo con grande fatica riesco a consegnare loro le chiavi col patto che possano stoccarla provvisoriamente dietro una siepe per non offendere il gusto dei possessori di auto uscite dai fumetti di flash gordon e pagate con cifre che farebbero esitare anche Ibrahimovic. (il capitolo auto sarà trattato nella prossima uscita).

In ognuno di questi ristoranti in numero del personale sarebbe sufficiente a muovere la flotta di trireme di Serse per cui generalmente si viene scortati al tavolo da un paio di ossequiosi camerieri ai lati come delfini con un petroliera, consegnati al proprio attendente mentre qualcun altro si occupa dei dettagli e declama le meraviglie del menù realizzato in genere da qualche imbecille di cuoco stellato che sciorina le virtù di ingredienti di solito usati per armi da fuoco come il salnitro o il catrame.
Per un’anima semplice come la mia l’unica scelta possibile di solito è scegliere il piatto con meno ingredienti (mai meno di 7) che per qualche motivo è sempre il più caro della lista.
Difficilmente in questi posti una persona normale riesce ad alzarsi sazia. Ogni piatto è presentato con un minuto di peana atto a lodarne l’impiattamento in cui la capasanta è stata scolpita da un monaco shintoista a forma di venere del botticelli con gli spaghetti d’alga a mo’ di capelli ma il contenuto edibile di ogni portata è certamente al di sotto dei requisiti minimi dell’OMS.

Avere uno stuolo di valletti fa almeno si che il bicchiere non sia mai vuoto per cui, con un rapporto cibo/alcool assolutamente sbilanciato sul secondo (non difficilissimo visto che il numeratore è infinitesimo), si raggiunge velocemente uno stato di euforia abbastanza persistente che aiuta al momento del conto. La prima volta ho pensato mi fosse stato chiesto di onorare l’ultima rata dei debiti di guerra degli imperi centrali stabiliti nella pace di Versailles e mi sono indignato reclamando la vittoria mutilata alla D’Annunzio ma ora generalmente sorrido complice di questo carrozzone in cui con una mano vieni pagato al mattino e con l’altra te rapinano in serata in un magnifico equilibrio degno di un alchimista. La bara non ha tasche.

Next: automobili da sboroni

agosto 7, 2015 Posted by | Editoriali | 3 commenti

Cronache Qatariote, mese 1

Prologo
D’ora in aventi le cronache potrebbero avere una grammatica leggermente incerta. A parte la demenza che non può essere definite senile perché l’ho sempre avuta la ragione principale è una tastiera priva di qualsiasi carattere special e con parecchi tasti invertiti che mi fa bestemmiare alle divinità sumere ogni volta che cerco un accento grave od acuto. Siate pazienti

Capitolo primo: armatevi e partite

Era da più di un anno che l’ottimo amico Matteo mi corteggiava per farmi cambiare lavoro. Curiosamente questo flirt non si era mai originato quando viveva nella florida Copenaghen ma solo dal suo trasferimento a Doha per cui magari qualche campanello avrebbe dovuto suonare anche visto il fatto che chiunque avessi informato della possibilità, avesse mostrato per la mia futura residenza lo stesso entusiasmo che suscita un peto in un coro polifonico.

Per chi non ha fatto della geografia la propria missione di vita Doha è la capitale del Qatar, piccola penisola del golfo persico nota in tutto il mondo unicamente per la sponsorizzazione farlocca al Barcellona figlia di una quantità sterminata di danaro che i locali spendono con la saggezza di un bambino ricco in un centro commerciale fatto solo di gelato e videogiochi tenuti insieme dalla Nutella.
In ogni caso, come dicono in quelli di Oxford “dallo e dallo si piega pure lo metallo” per cui di fronte a tanta insistenza ed una fetta cospicua del succitato denaro ho chiuso una valigia grande come la Nimiz e sono partito per questa nuova avventura.

Da ora in Avanti, salvo imprevisti, questo sfogatoio servirà soprattutto a dare notizie, gossip e futilità alla mia famiglia ed ai fruitori a casaccio ma soprattutto ad evitare che da qui a qualche anno io parli come gli emigrati a broccolino dei film di Scorsese.

Sono partito il 16 giugno, un mese è passato e finalmente posso tracciare un primo bilancio.

I campanelli sono diventate le trombe di Gerico dal secondo in cui sono sceso dall’aereo.
Nemmeno mia madre se fossi uscito da 8 anni di prigionia in mano all’anonima sarda mi avrebbe dedicato lo stesso entusiasmo che mi ha mostrato l’ufficio del personale e questo può definirsi quanto meno strano visto che è risaputo come il primodipartimento  HR fosse il un progetto di Himmler, poi scartato perché troppo inumano, prima della fondazione delle SS.

Mi era stato riservato un programma fittissimo che copriva tutto: autista con cartello, camera all’Hyatt grande come i distinti sud, prelievo il giorno successivo per sbrigare tutte le pratiche burocratiche e ufficio pronto dove mi aspettava il pc, il cellulare e la richiesta firmata dal capo per la macchina. Nel pomeriggio, sempre portato e riverito, un giro per fare un po’ di spesa perché mi avrebbero consegnato la casa verso sera. Ecco casa forse è un termine riduttivo perché l’ingresso dell’appartamento consiste in un salone da 60 mq con terrazzo grande uguale e svariati ammennicoli. Per non sprecare tutto questo spazio utilizzo una stanza da letto solo come ripostiglio per le scarpe e per le valige.

In cambio ti tutto questo a gratis i turni di lavoro spaventerebbero i lavoratori delle miniere di Golconda. 12 ore minimo al giorno 6/7, quando serve 7/7. Ora non mi lamento, credo sia giusto che quando ti trattino così tu ti debba fare il culo a secchio ma diciamo che l’ultimo anno e mezzo di Enel con ritmi da ufficio della motorizzazione di Atene un pochino mi avevano disabituato. Inoltre sono arrivato all’inizio del Ramadan, il sacro mese del digiuno, e  questo ha facilitato le cose perché qui i negozi negli ultimi 30 gg erano aperti solo dalle 20 in poi e per strada durante il giorno incontri meno gente che ad un raduno del partito comunista di Chamonix per cui che altro vuoi fare se non lavorare?

Un po’ alla volta mi sto integrando, non conosco ancora bene la città ma solo il quadrante dove vivo io, una specie di Olgiata se Dio vuole senza laziali, in cui tutto è non solo a portata di mano ma se nemmeno ti va di fare lo sforzo ti viene portato a gratis sull’uscio della porta di casa. Non sono certo di poter rinunciare all’omino che mi sguscia i gamberetti uno alla volta o a quello che regge le buste per quello che mi mette a posto la spesa quando tornerò nel mondo cosiddetto civile.

To be continued, next: “ristoranti, supermecati ed automobili sborone”

luglio 17, 2015 Posted by | Editoriali | 3 commenti

Cronache coreane #3: arti e mestieri, infanzia, architettura e cibo

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Sebbene il titolo del post possa far pensare a molteplici temi, tutti (forse ad esclusione del cibo) si possono riassumere in una sola parola: Stato centralista. Se siete figli dei fiori, anarchici bombaroli, gitani col carrozzone, amanti della libera impresa, mi dispiace ma avete sbagliato coordinate di un paio di paralleli.

Qua decide uno solo, di cognome fa Kim e non è quello che vedete sui giornali tutti i giorni ma suo nonno scomparso 20 anni fa. Il solco è stato tracciato e ce dovete stà.

Quando si chiede ad un nord coreano se il suo sia un paese marxista risponde vigorosamente di no. Il modello adottato è quello della Djouthè, un socialismo autarchico totale in cui tutto si produce in casa.
20150419_145058Sarebbe facile rispondere “graziearcazzo, siete sotto embargo dal ‘53” perché di fatto è come la storia dell’uovo e della gallina. Non si capisce se l’idea sia venuta perché nel paese non entra nemmeno uno spillo o se lo spillo non entri perché un paese del genere possa essere considerato un buon partner commerciale solamente  dall’imperatore Ming (non il cinese ma quello di Flash Gordon) o da Atlantide. Basti pensare che il confine con la Cina (unico interlocutore possibile) è definito da un fiume lungo  800 km e largo 1000 metri in cui ci sono 5 ponti. Due sono distrutti dai tempi della guerra, uno è chiuso per motivi sconosciuto ai più, uno è carrabile ma devi fare l’antitetanica per percorrerlo ed uno è bellissimo, nuovo, futuristico costruito dai volenterosi vicini come simbolo di amicizia in tipo 4 giorni e mezzo. Funziona? No! E’ chiuso perché dal lato coreano finisce in una marana piena di zanzare visto che non si è ritenuto importante fare la strada che lo collegasse alla città.

Infanzia ed arti e mestieri sono legate a filo doppissimo. Come tutti i paesi di filosofia socialista la scolarizzazione è severa e molto efficace.

I bambini di tutte le classi sociali vanno a scuola senza nessuna eccezione. Vitto, abbigliamento, libri di testo sono forniti dallo stato che in cambio si aspetta massimo impegno. Le materie sono praticamente le stesse a parte la storia che forse potrebbe essere leggermente orientata al revisionismo patriottico. Le due scuole che ho visitato avevano entrambe tre stanze per la prima infanzia in cui erano riprodotti stile presepe i luoghi natali del padre della patria, di sua moglie e del futuro maresciallo. Li i bambini imparano ad amare i leader, a credere nello stato, nell’unità improcrastinabile della corea e che giapponesi ed americani sono dei gran cornuti, fatto magari storiograficamente colorito ma innegabile.

Molte attività di gioco sono improntate al combattimento, ogni parco ha il tiro a segno e spesso le sagome hanno la forma di soldati stelle e strisce, giusto per stemperare.

20150417_143615Tutti devono andare a scuola fino al liceo ma solo il 5% selezionato in base alle capacità è avviato all’università. Chi non prosegue gli studi di solito percorre la tradizione familiare affiancando i genitori nella loro attività.

A questo punto ci sarebbe da discutere per ore se la teocrazia (aivoglia a dire cotica ma uno stato comandato da un caro estinto questo è)  sia un prezzo accettabile  per avere un paese che offre diritto paritario all’istruzione, una meritocrazia manichea in cui solo i più bravi e determinati possano avere accesso alle risorse limitate o se sia preferibile il nostro modello in cui uno studente di 32 anni, iscritto al 12° anno fuori corso di letteratura spagnola centro americana, può presentarsi all’esame con un posacenere incastonato nel lobo dell’orecchio ed apostrofare il docente con “scialla professo’ ” ma lascerei il dibattito per un prossimo simposio dal titolo “alfabetizzazione e suffragio universale: i grandi flagelli dell’occidente”.

Terminati gli studi lo stato chiede a tutti i maschi abili un servizio volontario di leva. La durata è variabile a seconda del beneficio che la tua istruzione possa dare al paese. Se sei diventato uno scienziato missilistico allora  potresti cavartela con una leva di 3 anni, se invece il tuo massimo contributo è stato realizzare la più grande stalattite di caccole della nazione sotto il banco allora ahitè ti toccano 8 anni belli freschi di naja in cui lo stato ti utilizza come forza lavoro per il bene pubblico.

Ci è stato spiegato  che sebbene non obbligatorio il servizio militate è molto, molto raccomandato.

Chi non l’ha fatto probabilmente non solo non avrà un lavoro dignitoso ma verosimilmente sarà costretto ad una vita di onanismo visto che (lezione a pappardella) le donne con cui abbiamo parlato hanno detto tutte che un uomo per poter essere un marito deve essere tre cose in ordine di importanza:

  • Un soldato
  • Un iscritto al partito
  • Colto e gentile

Servita la patria ogni coreano è pronto per fare il lavoro per cui è stato selezionato. Qui forse la rigidità dello stato è meno apprezzabile. Hai talento per i numeri ma volevi fare il ballerina (cit)? Sti cazzi, prendi in mano un bel regolo e vai a fare i conti. Le velleità artistiche tienile per quando ti reincarnerai sotto il 38° parallelo.

Il lavoro che fai in genere condiziona moltissimo anche come e dove vivi. Per risparmiare tempo e carburante la città è divisa in zone funzionali in cui una quota degli edifici è ad uso ufficio e la restante è uso abitativo per chi ci lavora. In pratica Pyongyang è divisa in gilde proprio come era Roma ai tempi dei papi per cui non solo ti tocca fare un lavoro che magari non ti piace ma devi anche vivere insieme ai tuoi colleghi vita natural durante nel palazzo dei matematici immaginando le matte risate alle assemblee di condominio per il calcolo dei millesimi.

La nuovissima architettura fra l’altro non è nemmeno male. A fianco di mamozzoni sovietici come i vari palazzi per congressi, archi di trionfo e compagnia bella, stanno sorgendo belle costruzioni interessanti anche se nulla è lasciato al caso. Il numero degli scalini per il parco monumentale della guerra? Uguale al numero dei caduti.

20150414_141813Quanti mattoni compongono la costruzione più imponente della città? 25525 ossia i giorni in cui il caro leader ha guidato il paese e pazienza se dovessero servire due foratini in più per finire il soffitto del cesso all’ultimo piano. Il simbolismo vale di più di orinare al caldo!

Rimane da esplorare solo la cucina ma il viaggio è infelice e brevissimo. Purtroppo ho il sospetto che per tutta la durata del mio soggiorno mi siano stati somministrati piatti edulcorati per stranieri perché a parte l’onnipresente Kimchi (una specie di crauto piccante all’aglio) il cibo ha rappresentato la vera grande delusione del viaggio.

Le variazioni sul pasto del reparto dialisi del San Camillo sono minime. Piatti dai sapori tenui, freddini ed un po’ unti hanno rappresentato la mia dieta per due settimane.
Come nota di colore posso dire che i coreani fanno un gran cosumo di una specie di stoccafisso ma non lo reidratano e cucinano come noi bensì lo masticano tipo big bubble sui mezzi di trasporto. Dopo 8 ore di treno al merluzzo tutta la benevole condiscendenza verso questo fiero popolo va a perdersi nella ricerca di un piatto di bucatini e sopratutto di un deodorante per ambienti. L’unica pietanza degna di minima menzione quella tipica per i matrimoni ossia tagliolini di soia serviti di proposito freddi (almeno stavolta era voluto) ammischiati con la qualunque. Buoni per carità non dico di no ma se provassi a servirli ai miei amici alle mie ipotetiche nozze sarei fortunato se finissi solo appeso ad una trave per gli alluci.

Maggio 20, 2015 Posted by | Editoriali | 1 commento

Cronache coreane, parte seconda

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A tutti quelli che mi chiedono cosa mi abbia spinto a visitare la Corea del Nord davvero non so cosa rispondere. L’unica cosa che avrei davvero voluto vedere, le spettacolari coreografie di massa in cui 150 mila persone disegnano con cartoccetti colorati scene bucoliche, mitologia classica e l’agiografia del glorioso leader, non le ho viste perché a causa della recessione non si tengono da un paio di anni per cui sono partito con qualcosa  in testa a metà fra i racconti dei miei genitori sull’unione sovietica degli anni ’70 e l’isola del dottor No del primo film di 007. Impossibile rimanere delusi se il biglietto da visita è rappresentato da un trasferimento aereo su un Tupolev dell’82 allietati da 2 ore di marce patriottiche interpretate dalle Spice Girls in  divisa dell’esercito marrone cupo sul monitor di un Commodore 64.

Diificle però poter etichettare il paese come illiberale. La sensazione costante è di essere su di un percorso ricreativo da cui è sconsigliato dirazzare anche se di fatto vige il motto delle nonne: “chiedere è lecito rispondere è cortesia”. Non esiste un vademecum di quello che è lecito e quello che no ma chiunque non sia irremediabilmente cretino apprenderà molto, molto in fretta la lezione per cui non si riceverà mai un rifiuto a qualsiasi richiesta ma le frasi “under maintenance” o “it’s not in our traditions” vogliono più o meno dire “se lo chiedi un’altra volta sarai sparato sul sole con un missile balistico difettoso”.

A parte questo l’accoglienza è molto calorosa fin dalla procedura piuttosto bonaria di ingresso nel paese . Mi aspettavo un sacco in testa tipo coscritti della regia marina inglese ed invece il modulo della dogana richiede solo che si indichi quali e quanti pc\telefoni\Ipad si posseggano ma il controllo sul bagaglio è praticamente inesistente. Tutte le raccomandazioni di non portare libri, guide ed opuscoli sembrano abbastanza sovrastimate anche se esiste sempre un fortunato per gruppo che viene sorteggiato, perquisito come solo ad una fidanzata dovrebbe essere permesso fare e la cui valigia viene sezionata in particelle quantiche.

All’uscita  ogni gruppo è affidato ad un’organizzazione rigorosa che fa sembrare l’unione delle banche svizzere una friggitoria del Vomero. Due guide per evitare che una sola possa essere influenzata dagli occidentali, sempre un uomo ed una donna rigorosamente coniugati (non fra di loro), un autista locale in rigorosi guanti blu loquace come Oddjob (quarda caso personaggio coreano) più un accompagnatore dell’agenzia di pechino (inglese). Per la nostra sicurezza ci chiedono il passaporto, il visto e cortesemente di non allontanarci mai a più di 10 metri da loro tipo mamma oca con l’imprinting.

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Questa storia della nostra sicurezza verrà riproposta ogni santo giorno; sulla metropolitana, in albergo, nei musei come se la Corea fosse la Nigeria in mano a Boko Aram quando Il coreano medio è minaccioso come l’omino della Bialetti, sorride sempre e guarda gli stranieri con un misto di genuino stupore e curiosità.

In una decina di giorni il rischio più grande che  si possa correre è rappresentato dai bambini che non sono avvezzi agli stranieri la cui presenza media nel paese secondo me è sui 30-40 in tutto al giorno e che quindi vogliono giocare con questi animaletti buffi con gli occhi tondi. Con diffidenza imperialista mi viene da pensare che questa questione di proteggerci possa essere un po’ una minchiata ma giacché siamo in ballo, balliamo.

Le nostre guide sono il signor Li, che con calore e simpatia ci invita a chiamarlo “signor Li” e la signora Ho che per non apparire fredda si espone e ci concede di chiamarla “signora Ho”.

Nel discorso di benvenuto signor Li ci parla del fatto che il suo sia un paese aperto al turismo a patto di rispettare le semplici istruzioni che ci vengono date. Per gli occasionali Pierini (tipo me) lascia cadere con noncuranza l’aneddoto di un turista americano burlone che ha fatto battute e lazzi sulla guerra, sui giapponesi, sulla loro forma di governo e sugli amati leader. Il fottuto yankee se l’è cavata con la memory stick smagnetizzata, fermo alla dogana in uscita per fargli stringere le natiche e richiesta formale di una lettera convinta di scuse per uscire dal paese. Praticamente uno scapaccione mediatico molto ben meritato nell’immortale insegnamento di “punirne uno per educarne cento”. Sono immediatamente soggiogato dallo modello coreano.

La signora Ho con il suo fare bonario per i primi tre giorni spiccica in tutto parole 4, un pelo meno loquace dei gargoyle che ornano la cattedrale di Notre Dame ma come dischiude l’ugola sfodera una voce da soprano degna di un teatro dell’opera. Il signor Li non è da meno e sulle orme di Albano Carrisi affianca la sua Romina in un duetto leggendario svelandoci il primo fatto straordinario: tutti i coreani cantano. Quando dico tutti intendo il 99.8 % della popolazione ed il livello fa impallidire chiunque abbia preso un microfono in mano.

Essendo consapevoli del loro talento in ogni ristorante o locale c’è un Karaoke per cui in 9 cene abbiamo assistito a 9 rappresentazioni canore di cameriere, accompagnatrici, guide ed astanti vari. Certo il repertorio non è proprio vastissimo per cui alla quarta variazione de “o surdat inammurate” coreano l’interesse potrebbe scemare ma è tale il pathos con cui viene interpretata da far soprassedere dall’intento di mutilare i propri timpani con le bacchette che in questo paese sono di metallo e non di legno forse proprio per favorire l’ipoacusia autoindotta..

To be continued (arti e mestieri, architettura e cibo)

Maggio 6, 2015 Posted by | Editoriali | 2 commenti

Cronache Coreane, parte prima

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Tanti anni fa, nemmeno ricordo più quanti, in una conversazione fra amici si parlava di spese esagerate e di soldi buttati al cesso per frivolezze. Anticipando Papa Francesco di  almeno un paio di lustri approvai non so quale acquisto dissennato con la frase che da allora mi perseguita “la bara non ha tasche”.

Non ho mai rinnegato questa weltanschauung anche se, a causa di un’educazione spartana, quando compro qualcosa per me provo un certo senso di vergogna pensando alla cartamoneta che scivola nel water.

A parte casi sporadici, oggetti assolutamente irrinunciabili per  qualsiasi uomo si voglia definire parte del consesso civile come la morte nera della Lego, preferisco spendere per beni intangibili che una volta consumati non restino li a fissarmi con rimprovero come il fantasma dei natali passati: regali per la famiglia e gli amici, cibo, vino e soprattutto viaggi.

Le mete sono scelte spesso in preda a raptus, causa un po’ di fenomenite ed la voglia stile star trek  di andare li dove nessun uomo è andato prima. Essendomi preclusi i satelliti di Marte, l’antartico e casa di Belen (li la condizione di esclusività decade ma me ne farei una ragione) ho optato per la Repubblica Democratica Popolare di Korea, meglio nota come la Corea del Nord.

Ora direte voi..e che cacchio c’è in Corea? Nessuno lo sa, neppure io prima di andarci e prova ne è il fatto che la Lonley Planet dedichi all’intero paese 32 pagine di cui 16 sul motivo per cui non dovreste andarci.
Per capire l’esiguità di informazioni la stessa collana dedica a Roma un volume da 400 pagine per cui tutta a tutta la DPRK sono dedicati meno fogli che al mio condominio.

Visitare questo paese misterioso però non è affatto facile, è una specie di Molise asiatico. Nessuno ne conosce l’ubicazione esatta, molti lo  mettono erroneamente vicino alle ex colonie francesi pensando ad un posto con palmette, banane e cappelli a cono e soprattutto è impossibile trovare qualcuno che ci sia stato. Le somiglianze con Isernia sono in effetti molte.

Alcune informazione riferite di amici di amici mi avevano indirizzato verso un’agenzia a Pechino ammanicata col governo che organizzava tour di un paio di settimane a prezzi da borsa nera per un numero limitatissimo di persone. Con grande delusione avevo ricevuto risposta negativa alla mia richiesta non tanto per l’esclusività ma perché, causa misteriosi motivi di salute pubblica, la Corea aveva chiuso le frontiere da 7 mesi e nessuno straniero era ammesso ma volendo avrei potuto lasciare un acconto per poter prenotare il primo posto disponibile.

Avendo ancora il cuore di un adolescente brufoloso, il rifiuto ha generato in me una voglia smaniosa di visitare questo luogo proibito pur non sapendo se m’attendesse Shangri-La o la versione orientale di Cosenza quando la mia costanza è stata premiata da una riapertura inattesa previo saldo di una rata del debito greco verso la Troika.

Che non sarebbe stata una vacanza normale l’avrei dovuto capire del briefing in Cina prima di partire in cui di fatto le uniche due raccomandazioni sono state:

  • Sull’aereo vi daranno una copia del giornale che avrà sicuramente l’effige del leader. Per carità di dio non lo piegate e non lo mettete nella tasca porta oggetti
  • Potete fare quasi liberamente le foto ma ogni scatto alle immagine dei passati leader deve includere i piedi

Per chi non sapesse nulla della Corea del nord (non è simpatico ed è fortemente sconsigliato chiamarli così in loro presenza) alcuni cenni storici che vi aiuteranno ad inquadrarla.

Sede di un paio di dinastie millenarie, i coreani sono stati sempre i Sardi dell’Asia. Hanno una loro lingua, un loro alfabeto (non usano gli ideogrammi), un’identità molto forte che li ha spinti a sanguinose resistenze contro cinesi, mongoli e tutti i popoli invasori fino a che ad inizio ‘900 sono stati massacrati dai Giapponesi che hanno fatto carne di porco del paese. A metà anni 30 è partita una guerra partigiana che è finita nel 45 con la ritirata dei nipponici, 5 anni di assestamento, un’altra sanguinosissima guerra civile fortemente sponsorizzata da cinesi ed americani ed uno stato finale che ha lasciato il paese esattamente come la Germania invertendo l’asse di divisione. A sud coca cola, lucette, macchinette e cotillons, a nord un austero stato socialista. I tedeschi dopo un po’ vivaddio ci hanno ripensato, qui il confine è un bel campo minato largo 2 km e lungo tutto il 38°parallelo come segno costante della distensione e della bonomia fra i due blocchi.

La prima cosa che colpisce entrando il DPRK è il visto che ti viene fatto vedere per circa 15 minuti e poi immediatamente ritirato insieme al passaporto. Nello spazio per la data è riportato 104 alla voce “anno”.

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Mi viene spiegato che li il conteggio parte dall’anno di nascita del padre della patria.. aaaaaaaaaaaannnamo proprio bene! Si perché, sempre per chi non lo sapesse, il presidente Kim Il Sung, nonostante si venuto a mancare più di 20 anni fa secondo la costituzione è ancora in carica, tutti i palazzi (non alcuni, tutti dall’asilo allo zoo) recano la sua effige e qualsiasi frase mi sarà proferita da un coreano conterrà il suo nome, preferibilmente come incipit.

To be continued

 

aprile 30, 2015 Posted by | Editoriali | 1 commento